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“INTERNAZIONALIZZAZIONE E DELOCALIZZAZIONE GLOBALE NEL SETTORE ABBIGLIAMENTO: LE OPPORTUNITA’DELL’ASIA"
1.La razionalizzazione del Made in Italy
Per mantenersi competitivi in un contesto globale caratterizzato da una sempre + pressante necessità, di conseguire un contenimento dei costi di produzione, congiuntamente alla differenziazione del prodotto a retail, i Brand italiani dell’abbigliamento sono chiamati a compiere tre scelte strategiche, che ovviamente non possono avere una valenza assoluta, ma devono essere ponderate a seconda dei fattori critici di successo, le aspettative e le priorità del target di consumatori propri del segmento specifico in cui l’impresa opera, ovvero, Alta Moda (lusso, designer), Bridge (diffusion, casual) o Sportswear. Per comprendere il destino del settore Tessile Abbigliamento Italiano è prima di tutto necessario definire che cosa si intende per Made in Italy, i vantaggi competitivi che effettivamente comporta, l’importanza e le garanzie che riveste nell’immaginario del consumatore. In tre parole il Made in Italy rappresenta agli occhi del consumatore la garanzia di uno standard qualitativo, di uno stile e di una creatività superiore che ha portato i brand italiani ad affermarsi come trend setter a livello mondiale. Prima di tutto va riconosciuta la scindibilità del M in I nelle sue due componenti di differenziazione: quella tangibile dell’eccellente qualità materiale, riscontrabile sia a livello dei tessuti che della fattura del prodotto finito, e quella intangibile dello stile e della creatività proprie del brand italiano. La loro unione era stato il frutto di una intelligente strategia industriale finalizzata ad ottenere una sinergia altamente competitiva che ha dato vita ad un vantaggio nazionale praticamente ineguagliabile. Fino a un decennio fa tutto questo poteva valere senza eccezione dal top di gamma al segmento medio basso. Il Made in Italy porta con sé una indiscutibile superiorità qualitativa, riscontrabile sia a livello del tessuto per le tecnologie evolute, gli skills e il know how dei processi di lavorazione dei materiali e la capacità innovativa nei filati e nelle stampe, che a livello di confezione del capo finito per la precisione nelle finiture e nei tagli e la sartoriale attenzione al dettaglio da parte della manodopera specializzata. Tutto ciò conferisce alla sartoria italiana quel carattere di artigianalità che la rende tutt’ora lo standard qualitativo ottimale. Il problema è che tutta questa perfezione ha dei costi che in certi casi possono condizionare la competitività di un Brand operante in un contesto globale tanto da erodere (segmento medio e basso) il premium price conferitole dal mercato. Un altro problema sono i volumi, la capacità produttiva italiana ha dei limiti che poco si adattano ad una efficiente produzione industriale diretta ad un mercato di massa. Oltre a queste realtà endogene bisogna poi considerare due mutamenti di carattere economico-ambientale molto importante: la produttività ed il livello di qualità raggiunti dal sistema tessile-abbigliamento di alcuni paesi in via di sviluppo soprattutto dell’area asiatica, è in continua crescita tanto da cancellare il vantaggio italiano in tutto il macro segmento della produzione industriale, ovvero dalle linee diffusion in giù. Negli ultimi tempi sono avvenuti tali mutamenti a livello macro economico da dovere rivalutare con attenzione l’effettiva convenienza di un Made in Italy, inteso come produzione italiana, e di una strategia di marketing che punti a confondere il brand inteso come stile e creatività italiani, con l’etichetta di provenienza, garanzia di qualità materiale. Una strategia globale, comporta l’adozione di una prospettiva più ampia dei confini nazionali (geograficamente) e aziendali (integrazione/esternalizzazione) nel decidere con che modalità operativa (FDI, market, make together) e con che raggio d’azione (distretto, nazione, mondo) eseguire le diverse attività della catena del valore relativamente ad uno specifico prodotto. Il settore dell’abbigliamento manifesta una tendenza verso la globalizzazione avvalorata da un progressivo omogeneizzarsi dei gusti dei consumatori, dalle contaminazioni stilistiche, dalla concentrazione della produzione, (operabile efficientemente solo dopo il 2005, con l’estinzione del Sistema Quote prevista dall’accordo WTO - ATC), e da un approccio sempre più globale delle imprese, caratterizzato da un processo di integrazione a valle, associato ad una crescente coordinazione centrale e standardizzazione del marketing mix per uno sviluppo quanto più omogeneo dell’immagine del Brand su tutti i mercati, il settore mantiene ancora delle necessità di adattamento locale dovute all'impossibilità di slegare totalmente il gusto personale e quindi la propensione all'acquisto di un capo di abbigliamento dalla cultura e tradizione del Paese in cui si è nati e vissuti. L'internazionalizzazione, intesa come spread geografico ottimale delle attività della catena del valore in funzione della massimizzazione del vantaggio competitivo, è oggi una necessità per tutte le imprese, e sotto questa spinta, la dimensione locale del distretto industriale sta ridefinendo le proprie coordinate evolutive e le proprie valenze strategiche. Sotto la spinta dei processi di integrazione globale e di un contesto competitivo sempre piu’ pressante, la dimensione locale del distretto (una rete di imprese correlate e di supporto geograficamente concentrate, riproducente nella sua integralità la filiera produttiva del settore e capace di sviluppare, nel corso del tempo, un vantaggio competitivo di costo/differenziazione dalle sinergie di processo e dalle curve d’esperienza scaturenti da un tale sistema produttivo dinamico) sta ridefinendo le proprie coordinate evolutive e le proprie valenze strategiche. Si assiste, infatti, ad un’evoluzione strutturale e organizzativa della forma classica di distretto (massima integrazione della catena del valore/filiera produttiva) in quella moderna del “distretto allargato” in cui aumenta la dimensione delle imprese e si registra un forte impulso all’internazionalizzazione, intesa come delocalizzazione delle attività ad alta intensità di lavoro (di solito anche a basso valore aggiunto) in Paesi che presentano un inferiore costo della manodopera, mantenendo, però, saldamente internalizzate le attività ad alto valore aggiunto su cui si fonda il vantaggio competitivo in differenziazione (R&D, marketing, quality controll). La competitività nel lungo periodo è legata ad una forma di distretto bipolare che, fondandosi sulla cooperazione tra nucleo italiano e la periferia produttiva nei PVS, permette il perseguimento congiunto di un contenimento dei costi di produzione e della differenziazione del prodotto a retail, e quindi di un prodotto finale competitivamente superiore a quello del distretto classico. Va, però, precisato che una siffatta strategia di delocalizzazione produttiva, anche parziale e limitata ad operazioni a basso valore aggiunto, può risultare efficiente solo se è effettivamente garantito uno standard qualitativo non lontano da quello del Made in Italy e se il costo opportunità in immagine dovuto alla perdita dello stesso (regole di origine UE) non risulti superiore al risparmio di costo netto (tolti i costi di quote, dazi, trasporti..). Il fenomeno a cui si sta assistendo oggi è una progressiva razionalizzazione del Made in Italy a tutti i livelli della filiera produttiva, dove per razionalizzazione s’intende un efficiente uso del Made in Italy solo quando questo si dimostri davvero competitivo. Nei segmenti Alta moda e Designer, per esempio, il Made in Italy rimane fondamentale per la credibilità del marchio e la giustificazione del prezzo. Il cliente ha legato la qualità alla provenienza anziché affidarsi completamente al brand. Delocalizzare la produzione comporterebbe un sicuro danno d’immagine, superiore all'’indubbio risparmio di costo. Il problema è sentito, e si cerca di equilibrale la collezione dal lato produttivo per avere almeno l’80% Made in Italy. La delocalizzazione puo’avvenire su tipologie d’articoli minori come gli accessori o i capi meno importanti. Il sistema di traffico di perfezionamento passivo, ad esempio, serve ad operare velocemente e a basso costo lavorazioni non sostanziali ma complesse e laboriose, solitamente ricami, che se svolte in Italia avrebbero un’incidenza di costo tale da fare esplodere il prezzo al retail, per non parlare dei tempi operativi più lunghi dovuti alla scarsità di manodopera specializzata in queste operazioni . A livello macrosettoriale, la spinta alla internazionalizzazione della produzione sta diventando di anno in anno sempre più forte. La decisione di delocalizzare o meno la produzione avviene in base ad un’analisi di trade off tra costi / ricavi opportunità che tiene conto dei seguente fattori: risparmi di costo in produzione, costo opportunità in immagine, sensibilità al prezzo del target di mercato, la complessità di confezionamento dell’articolo in questione, i volumi produttivi, la qualità e la produttività raggiungibili esternamente (nei paesi in cui si delocalizza la produzione), l’efficienza del sourcing materiali (proximity e qualità), i costi e tempistiche di consegna etc. Oltre a questo va tenuto conto del fatto che una scelta di delocalizzazione produttiva necessita lo spostamento del fulcro delle strategie di marketing dal Made in Italy al brand e di investimenti in una struttura di coordinamento e di quality control necessari per fornire al consumatore le garanzie qualitative che sono da sempre associate al prodotto tessile – abbigliamento italiano. Attualmente è conveniente rinunciare al Made in Italy per una maggiore efficienza produttiva dal segmento diffusion in giù (casual, sportswear). Il Made in Italy sarà sempre più una nicchia lusso di stampo artigianale. Saranno mantenuti soprattutto gli accessori in pelle, le calzature in cuoio e quei capi di abbigliamento in tessuti pregiati di facile sourcing europeo (lane e pelli) o caratterizzati da fasi di lavorazione capital intensive, finiture e modelli complessi, per lo più prodotti in volumi contenuti per una clientela ricca ed esigente. Su queste basi, la futura competitività del fashion business italiano sarà legata ad una strategia di differenziazione in immagine facente leva anche sulla provenienza del capo, ma soprattutto sullo stile e sulla creatività del marchio e accompagnata da un uso razionale del Made in Italy, inevitabilmente sempre più confinato verso il segmento alta moda (lusso e designer), dove la qualità superiore ben si allinea con i fattori critici di successo e le aspettative del consumatore. Per il resto del settore, la spinta all’internazionalizzazione, intesa come delocalizzazione della produzione in paesi a basso costo della manodopera e dotati di ampie potenzialità produttive, è in continua crescita di pari passo con le abilità produttive e le tecnologie dei subfornitorir asiatici e la tendenza alla rilocalizzazione degli impianti nei Paesi della “nuova” UE. Tutto ciò in linea con la generale tendenza a concentrarsi sulle attività ad alto valore aggiunto della catena del valore quali, la ricerca e sviluppo, il controllo qualità, il marketing, la distribuzione e le vendite, i servizi al cliente, esternalizzando le altre per massimizzare i margini operativi e mantenere una flessibilità strutturale in grado di rispondere efficacemente agli andamenti imprevedibili dei mercati e dell’economia in generale. Il sistema moda italiano dovrà concentrarsi su una strategia produttiva basata sui seguenti punti:
1. Realizzare prodotti (alla base del successo) che devono essere belli, unici (o rari), raffinati (sofisticati),difficili da produrre e quindi da copiare, destinati ai consumatori ricchi del mondo, concetto che va inteso come potere d’acquisto.
2. Produrre lotti medio – piccoli, serie limitate realizzate a costi ragionevoli, destinati, in coerenza con il punto precedente, per l’abbigliamento ai consumatori finali e per il tessile a stilisti creatori e all'’industria dell’abbigliamento mondiale.
3. Effettuare consegne rapide, compattando le fasi di lavorazione utilizzando tecniche come il just in time e la quick response.
In sintesi l’Italia, come il resto d’Europa e in generale il Nord del mondo dovranno sempre più specializzarsi nella produzione a circuito veramente corto di prodotti ad alto contenuto moda ed in quelli a tecnologia complessa. Il resto sarà, presto o tardi, delocalizzato in paesi a basso costo della manodopera.
Per un futuro all'insegna della competitività, in sintesi, l’industria italiana dell’abbigliamento è chiamata a compiere tre passi strategici: Investire su una strategia di differenziazione in immagine quanto più concentrata sul brand, perché quest’ultimo possa diventare di per se garanzia di qualità, stile e creatività italiane agli occhi del consumatore, quindi delocalizzare razionalmente la produzione per sfruttare, nel rispetto della qualità, i possibili vantaggi di costo e di efficienza logistica nel sourcing ed infine, integrarsi a valle nella distribuzione per acquisire il controllo diretto delle funzioni chiave del retail, per una gestione efficiente ed omogenea dell’immagine, un miglior servizio al cliente ed un attento monitoraggio degli umori del mercato che permetta una pronta risposta ad eventuali cambiamenti nei trend della domanda.
2. Il mercato asiatico L’Asia, anche considerando solo le regioni Pacifico e Sud Est, è un continente vastissimo, caratterizzato da diverse realtà di sviluppo economico. Non si po’ certo dire che i Paesi asiatici presentino opportunità di mercato omogenee, soprattutto per quanto riguarda il prodotto moda italiano che, occupando la fascia alta e medio alta del mercato, richiede un maggior impegno finanziario da parte del consumatore e quindi l’esistenza di una classe sociale dotata di un discreto potere di acquisto. Tenendo presente il forte divario tra ricco e povero, sia in termini qualitativi (chi è ricco lo è veramente e si può permettere il lusso più sfrenato, mentre chi è povero non sa cosa potrà mangiare il giorno dopo) che in termini quantitativi (ma in questo caso il valore percentuale sulla popolazione totale varia considerevolmente tra Stato e Stato) che caratterizza queste regioni, al fine di instaurare una proficua attività commerciale, ci si deve rivolgere ai Paesi di così detta nuova industrializzazione ed a quelli in forte sviluppo (Cina), relegando alla sola funzione di sourcing e manufacturing export oriented i Paesi più poveri, sebbene possano presentare anch’essi una classe sociale ricca incline al consumo di prodotti – moda occidentali ma troppo esigua ( e comunque incline all’acquisto nelle boutique estere) per giustificare una presenza commerciale, senza contare poi l’arretratezza in cui giacciono il sistema di retail/distribuzione, dei servizi e delle infrastrutture in generale che rendono difficile l’attività operativa in loco.
Per valutare l’attrattività di un mercato, le potenzialità e la propensione al consumo di prodotti moda, le imprese intervistate sono unanimi nel citare alcuni criteri selettivi di base: il numero di abitanti per fascia di reddito relativamente al segmento di mercato di interesse, il PIL pro capite per regione, l’indice dei consumi privati. Insieme, questi indici economici danno un quadro generale della salute dell’economia locale. Per valutare l’effettive opportunità di mercato occorre considerare anche le prospettive di crescita del segmento obbiettivo ed il grado di competitività ad esso associato, il livello di sviluppo raggiunto dalla struttura distributiva – retail e dai servizi di supporto al commercio, la cultura, la religione e le eventuali problematiche connesse all’abbigliamento, la stabilità politica, le barriere commerciali (tariffarie e non tariffarie) e i vincoli agli investimenti diretti e alle partecipazioni di capitale (molto importanti per la scelta della modalità distributiva). In base a questi criteri selettivi possono essere scartati tutti i cosiddetti “Least Developing Countries” (Cambogia, Laos, Myanmar, Corea del Nord) e Paesi meno arretrati economicamente ma con un mercato interno non ancora maturo a livello organizzativo e strutturale come Filippine e Vietnam e (ma solo in via congiunturale) Paesi con gravi instabilità politico – sociali come l’Indonesia, nonostante sia sempre stato un interessante mercato per i prodotti di lusso. Dalle interviste effettuate su un campione di imprese italiane è emerso che il primo mercato di sbocco in Asia per le imprese italiane è Hong Kong perché dispone di una vasta pool di consumatori benestanti, culturalmente più vicino all'occidente, è servito da qualsiasi tipo di servizio e fa da fashion setter per il mercati vicini, primo fra tutti la Cina (senza dimenticare che a HK si possono trovare i partner commerciali per operare sugli altri mercati). Impostata un’immagine vincente a Hong Kong, i mercati – obbiettivo diventano Taiwan e Singapore, anch’essi ricchi, concentrati e quindi semplici dal punto di vista distributivo e del marketing. In una terza fase, ma anche parallelamente, si può impostare una presenza commerciale (diretta, wholesale o con un distributore in franchising) in Corea del Sud e in Tailandia e una volta raggiunta una certa esperienza del business asiatico si può affrontare il gigante Cina, ma sempre con una rete distributiva circoscritta alle aree costiere e del nord est, dove si concentrano i ricchi e le infrastrutture, sia di trasporto che retail (grandi magazzini e centri commerciali) ed i servizi alle imprese sono già moderni. In Cina capire la densità per fascia di reddito è importante nella scelta della localizzazione del retail in un territorio così vasto. Per capire a fondo le opportunità offerte dal macro mercato asiatico è bene comprenderne prima il consumatore. Quello che seguirà è la presentazione dei caratteri più significativi del consumatore asiatico, cioè di quelli che, pur con diversa intensità, sono riscontrabili sia nei mercati dei Paesi di nuova industrializzazione (HK, Corea Taiwan, Singapore), come in quelli ancora in via di sviluppo di Cina Tailandia e Malesia. Data la recente apertura di questi mercati al consumo globale e l’ancora più recente interesse dei brand della moda italiani per i mercati dell’Estremo Oriente, il consumatore asiatico non ha ancora ben sviluppato un suo senso critico verso il vasto e variegato mondo della moda. Se da un lato la sua immaturità lascia ampio spazio alle leve del marketing, dall’altro aumenta e di molto il grado di competitività del settore. Le spese in immagine devono rimanere costantemente alte per mantenere forte l’attrattività del marchio, ad esempio attraverso lo studio e l’implementazione di promozioni e pubblicità su riviste di settore ( molto popolari in Asia) e cartelloni stradali. In mercati maturi dal punto di vista moda come la UE e gli USA, il consumatore tende ad imporre la sua personalità piuttosto che seguire pedissequamente l’immagine ed il life style proposti da uno specifico brand e perciò prende da tutti un po’ ottenendo un “total personal look “ che soddisfa la sua esigenza di individualità. In mercati nuovi come quelli asiatici, il consumatore è fashion freek (brand oriented) ma non ha ancora il gusto e le capacità critiche per orientarsi da solo. Anche per motivi di carattere prettamente culturale vuole qualcosa di esclusivo che si possa mostrare, che si noti nella vita di tutti i giorni come negli eventi mondani e che conferisca prestigio e status alla persona. Nulla ha un impatto più deciso di un total look. Il cliente deve e vuole essere educato dal brand nella scelta dello stile, tende ad affezionarsi ad una particolare marca e desidera immedesimarsi nell’immagine da essa proposta, facendosi trascinare dal life style del marchio e cercando di assimilarlo il più possibile. Da qui la sua ricerca del “total look” e la conseguente doppia necessità da parte del brand, da un lato produttivo, di coprire totalmente il range di offerta completando la collezione con i dovuti accessori, dal lato marketing, la scelta dei giusti testimonial per materializzare lo status e lo stile proposti (personaggi Tv e business man di successo sembrano essere i più efficaci per far presa sul consumatore). Considerato tutto ciò, si consiglia alle imprese italiane intenzionate a penetrare con successo questi mercati di sviluppare prima di tutto un’immagine distintiva. La parola d’ordine, quindi, è differenziarsi, perché è proprio il bisogno di apparire a spingere il consumatore all'acquisto, ma solo di tutto ciò che abbia un marchio ben visibile e sia segno di prestigio in società. La sua intensa vita sociale è infatti la chiave per comprendere e raggiungere il consumatore asiatico. In città come Hong Kong, Taipei, Bangkok, Shanghai o Pechino, vivono milioni di persone compresse in spazi ristretti, tanto che nelle ore di punta sono necessari vigili per dirigere il traffico pedonale. L’esigenza di emergere dalla massa come figure singole attraverso il rispetto e l’ammirazione degli altri, spinge chi può permetterselo a spendere in beni quali auto di lusso, gioielli e capi d’abbigliamento firmati, ovvero in tutto ciò che si può facilmente mostrare agli altri. Il lusso discreto non è di moda, più il marchio è visibile più il vestito o l’accessorio risulta efficace nella sua funzione differenziante. Questo sentito desiderio di mostrarsi è più forte nei mercati giovani come Cina e Tailandia, dove addirittura non viene staccata la targhetta del marchio dalla manica delle giacche da uomo. Di questa diffusa logo mania bisogna tenere conto durante la scelta, all'’interno di una collezione, dei modelli da destinare alle boutiques asiatiche. “Il consumatore asiatico è più veloce ad assimilare i nuovi stili proposti, accettano volentieri le novità delle mode, leggono molto le riviste di moda per cui la pubblicità su stampa funziona molto. Funzionano bene anche gli eventi mondani, è importante dare al consumatore qualcosa di concreto da vedere, sono molto viziati e vogliono essere trattati bene. Un po’ in tutta l’Asia ma soprattutto a HK vi è un VIPismo esagerato, il bisogno di farsi vedere. Amano molto le vendite esclusive, il trattamento particolare e gli sconti speciali. I consumatori di HK e Singapore sono più raffinati e stanno diventando più indipendenti nella scelta rendendo critico, per la differenziazione del brand, il servizio al cliente. Un’altra particolarità del consumatore asiatico sta nelle misure, mediamente più piccoli di statura, le braccia più corte, la vita più stretta. Ciò comporta un adattamento dei modelli per un fitting ottimale. “ “La strategia di marketing punta ad un adattamento del prodotto al mercato locale accostando ai modelli base della collezione stagionale, una collezione specifica per l’Asia nei modelli, taglie e colori che più si adattano ai gusti del consumatore asiatico. Rispetto all'Europa o agli USA, cambia anche il posizionamento sul mercato: la qualità dei prodotti è più alta, ed anche la percezione del marchio. “ In generale il consumatore asiatico, in un capo alta moda italiano ricerca prima di tutto lo status e lo stile sofisticato ed elegante che lo differenzia, poi la qualità dei materiali e le finiture della manifattura italiana. Il Made in Italy è dunque importante ma più come ragione di ulteriore differenziazione che come garanzia qualitativa. Il consumatore che è disposto a pagare vuole il meglio. Per concludere è importante evidenziare come nel panorama commerciale dell’Asia post crisi si denoti un’attenzione maggiore al prezzo, i volumi sono stati recuperati ma i prezzi negli ultimi tre anni non sono aumentati, anzi in certi casi sono diminuiti a riprova della “price sensitiveness” del consumatore, quasi fosse la cicatrice di una ferita profonda. Per sintetizzare, il consumatore asiatico è attento al prezzo e al servizio nel punto vendita, ama tutto ciò che è griffato e che comunichi uno stile e uno status sociale, ma non ha ancora sviluppato un gusto personale. Preferisce un total look e cerca di assorbire al massimo il life style proposto dal brand risultando a volte con look impersonali. Il panorama distributivo asiatico, evolutosi negli anni post crisi, si caratterizza per la massiccia presenza di centri commerciali e department store molto segmentati e organizzati. Funzionano bene le location monomarca anziché le multibrand boutique. Se da un lato i grandi Brand della moda, potendo contare su ingenti disponibilità finanziarie, tendono a sostituire completamente la distribuzione wholesale e l’alternativa del distributore in franchising con un’integrazione quanto più totale che permetta un efficiente controllo dell’immagine (per un Brand globale dell’Alta Moda è importante avere un’immagine uniforme), il segmento casual predilige una strategia mista che affianchi (in uno stesso mercato) alle collaudate tecniche di distribuzione indiretta un retail di proprietà, generalmente circoscritto alle location più interessanti ed ai flagship store. Lo sportswear, per concludere, preferisce mantenersi con una tradizionale struttura distributiva esternalizzata, da notare la progressiva sostituzione dei licenziatari con distributori in franchising per i nascenti monomarca, ma la modalità più usata rimane quella del distributore – grossista con un parco clienti esterno (negozi di articoli sportivi, department store) in linea con il sistema asiatico che per lo sportswear predilige ancora i negozi multimarca (ad eccezione della Corea che utilizza un sistema in franchising monomarca). “L’alta moda si integra nella distribuzione rilevando i negozi esistenti ed aprendone di nuovi potendo partire da un’esperienza di retailing diretto ben formata in Europa e negli USA. Per gli articoli sportivi non vi è questa tradizione, ad eccezione della Nike, la stessa Adidas non gestisce che un numero esiguo di negozi in proprietà.” “Per decidere la modalità di presenza si deve elaborare un business plan: voglio vendere il mio prodotto in una determinata struttura retail, con un determinato prezzo ed a un target ben definito. Osservo cosa fanno i miei concorrenti e scelgo se voglio operare direttamente con una JV o al 100% di proprietà o tramite un distributore in franchising, se voglio controllare il retail o solo l’wholesale. A questo punto posso lanciare il brand con un certo tipo d’immagine e di prezzi in linea con le scelte retail. E’ importante avere il negozio nei posti giusti ed investire in comunicazione per differenziarsi. In sintesi una buona strategia di internazionalizzazione si compone dei seguenti passaggi: si studia il mercato, si delinea un business plan, opero i primi investimenti nella struttura distributiva e in comunicazione, osservo il primo anno di vendite e poi mi aggiusto di conseguenza.” Il Made in Italy di fascia alta va molto bene, il segmento casual sta vivendo una ripresa più graduale dovuta anche alla forte competitività dei marchi locali che possono far leva su una struttura produttiva integrata che permette costi più contenuti. Per abbassare i costi a retail sul mercato locale ora più che mai interessante, le imprese italiane che producono localmente hanno convertito il loro sistema produttivo esternalizzato a terzisti locali, da puro export oriented (tutta la merce veniva spedita in Italia) a market oriented, gestendo direttamente la distribuzione con un ufficio a Hong Kong evitando cosi almeno i dazi di import e i costi di trasporto.
L’Asia negli anni futuri può dare buone soddisfazioni ma è complessa e molto veloce e va gestita direttamente in loco tramite un ufficio che monitori l’andamento del mercato, i trend, la percezione del marchio da parte del consumatore, organizzi eventi e promozioni. Se si vuole penetrare a fondo il mercato asiatico bisogna essere presenti e spingere sempre il brand, che è quello che fa la differenza.

Francesco Gibbi
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