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Il Made in Italy come motore semiotico nel mercato globale odierno.

Eleganza, cultura progettuale, tradizione, ricerca stilistica, design di alto livello: sono queste le virtù che il resto del mondo attribuisce all’industria italiana. Il valore più peculiare del Made in Italy ha origini molto profonde e lontane, anche nella storia. L’Italia è un Paese il cui appeal è frutto in gran parte delle suggestioni della sua storia, della sua arte, della sua cultura e del fascino della sua geografia. E tutto questo si rifà su ciò che sul territorio è creato: il Made in Italy, appunto. La nostra marchiatura d’origine esula delle più semplicistiche questioni di “country of origin effect” e dal fenomeno del “Made in”; è qualcosa di diverso dal “Made in China” o dal “Made in Taiwan” per esempio, etichette queste che rivelano la semplice indicazione di provenienza geografica. Il Made in Italy condivide con la marca la natura immateriale, ma come tale non può prescindere dalla contingenza; i suoi aspetti connotativi e simbolici aggiungo o tolgono valore all’offerta in toto o ai suoi singoli settori. Il Made in Italy è un “vettore di senso”, un “motore semiotico” in grado di dar vita ad un universo evocativo che ruota attorno a un sistema di valori base. Nell’immaginario collettivo i settori di competenza del Made in Italy, nei quali il sistema Italia gode di gradi di specializzazione e reputazione tanto riconosciuti che il “coutry of origin effect” possa costituire un valore aggiunto e fortemente competitivo nel panorama internazionale, sono moda, arredo casa e food. Minimo comune denominatore: la qualità estetica, spartiacque e criterio primo per la definizione del Made in Italy. Ma la domanda che oggi si pone con forza all’attenzione di tutti è: che valore ha, e se lo ha come lo giustifica, la produzione locale a fronte di un consumo globale? In altre parole, il Made in Italy ha senso nel panorama ipercompetitivo del mercato globale o, viceversa, è destinato a soccombere nella corsa all’abbattimento dei prezzi inesorabilmente vinto dai competitors asiatici? Innanzitutto c’è da rilevare che la legislazione troppo lasca ed ambigua da una parte e la contraffazione dall’altra sviliscono e svuotano di senso il mondo simbolico veicolato dal Made in Italy. A danno questo sia del consumatore, in quanto gli si nega la possibilità di fare una scelta d’acquisto consapevole; sia delle aziende che producono ancora in Italia a costi maggiori, in quanto molte aziende, giocando con i parametri valoriali delle normative, producono in Cina e marchiano poi Made in Italy; infine a danno della produzione italiana in toto, in quanto i consumatori non si fidano più della marchiatura d’origine e in quanto prodotti di dubbia qualità generati all’estero ma marchiati Made in Italy abbassano gli standard qualitativi dalle marchiatura nell’immaginario collettivo. C’è poi da rilevare che il consumatore oggi è portato a fidarsi dal brand più che del Made in: sono tutte sciagurate le mamme che acquistano per i loro bimbi neonati i prodotti Chicco, pur marchiati “Made in China”? Lo stesso vale per prodotti come la Nike, la Diesel, ma la lista sarebbe infinita. Il Made in questi casi non ha alcun senso: ciò che conta è il brand. Il Made in Italy però rafforza e conferma i valori che il brand veicola, creando un sinergia virtuosa, la quale nei settori legati alla moda ed al design è fondamentale e necessaria per il successo del prodotto stesso. Il Made in Italy è dunque paragonabile ad una marca di secondo livello, che non supplisce alla mancanza di una brand identity chiara e forte, ma comunque contribuisce in un’ottica di comunicazione integrata a rafforzare i valori veicolati dal brand, ribadendoli. Per questo ha senso continuare a produrre localmente e difendere fermamente la marchiatura d’origine per far sì che il mondo valoriale creato nei secoli che gli ruota attorno non venga in poco tempo distrutto.

Nicoletta Dionisio Dott.ssa in Scienze della Comunicazione d’impresa
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